La mia mirabolante storia.

La mia storia è riassumibile in un aggettivo : “bravo”.
Tutto sommato sono stato un bravo figlio, un bravo marito, un bravo padre e oggi un bravo nonno.
In un sonnellino pomeridiano durato appena 40 minuti, ho ripercorso tutta la mia vita.
Cose “mirabolanti” e impossibili da fare in così poco tempo, che soltanto un viaggio con Morfeo riesce a far compiere ogni tanto.
E vi racconto subito la fine, dove come in un film, davanti casa dei miei genitori, io e mia moglie, abbracciati, con alcuni nostri comuni compagni di liceo che ci precedevano, felici ci stringevamo e ci confessavamo : “Che bello aver vissuto le stesse cose insieme!”.
Posso dire che quando dovrò salutare il mondo, vorrei proprio farlo in questo modo cinematografico, con una dissolvenza progressiva su questa scena tenera e una musica romantica di sottofondo.
Dunque dicevamo che non sono stato un “ottimo”, ma indubbiamente il “distinto” che mi appioppiarono alle medie, credo di essermelo meritato tutto finora.
Bravo figlio, perché ai miei genitori ho sempre evitato preoccupazioni, problemi, incomprensioni, spese folli o impunture dell’età contro loro decisioni.
Ero quel che si dice un secchione a scuola, un fratello divertente, il confidente positivo di tutti.
Mi sono sposato la prima donna che gli ho portato in casa, e alla fin fine, ho sempre accettato ramanzine e desiderata loro, anche quando ne vedevo i limiti.
Bravo marito, perché con mia moglie ho sempre avuto un rapporto completo di crescita e di confronto, basato molto sull’affinità di pensiero.
Ancora ci capita dopo quasi 50 anni di vita insieme, di pensare esattamente la stessa cosa, anche oggi, come quando 14enni eravamo già innamorati.
Come di sorridere complici o solo di star bene per una carezza, un abbraccio sul divano o un grattino alla schiena di sera prima di prendere sonno.
Buon padre, perché posso dire di aver contribuito a crescere una ragazza fantastica.
Pochi “no”, pochissimi “basta”, “nessuno schiaffo”, eppure sono riuscito con mia moglie, a tirare fuori un eccezionale risultato di intelligenza, bellezza, finezza, sensibilità, praticità, e bontà.
Perché io ci sono oggi, ma ci sono sempre stato, anche quando tornavo alle 21 dall’ufficio o stavo fuori casa per giorni interi.
E mia figlia sa dentro di lei, di avermi sempre dalla sua parte, come quando mi sorrideva sorniona sul letto appena nata, col mio orologio tra le manine.
E infine un bravo nonno, perché mi adopro sempre per loro, e non mi sono mai sentito messo da parte o trascurato dai miei due frugoletti, per i quali anzi sono da sempre il loro comico preferito.
E i quali potranno contare sempre su questo giovane vecchio, che gli starà sempre vicino !!!
Una storia mirabolante davvero, con alti e bassi, condotta sempre in buona fede, sincerità e generosità.
Proprio come il Mirabolano (o Amolo), il frutto francese, metà ciliegia e metà susina, derivante dal latino “mirari” (stupirsi), che nell’antichità era scherzosamente ritenuto portentoso per le sue qualità depurative, antivirali e lassative.
Ecco diciamo a conclusione di tutto, che posso essere definito il “lassativo per eccellenza per chi mi vuol bene” e … credetemi non c’è cosa più bella, dopo tanto correre nella vita.

La Città è meglio ?

È stato l’oggetto di una conversazione del pomeriggio con un vecchio amico.
Entrambi seduti, con mia moglie, al sole di un chiosco bar in quel di Pescasseroli, affacendati in un bel happy hour all’aperto, ad assaggiare il maggior numero di stuzzichini possibili.
“Vivere in città è meglio ?
Siamo proprio sicuri ?”.
Noi megalopolicittadini e lui per metà vita residente in un paesino montano dell’Abruzzo.
E ci ha fatto alcuni esempi che ci hanno fatto riflettere.
“Volevamo un aperitivo, 20 metri a piedi, ci siamo seduti e abbiamo ordinato alla ragazza del chiosco, sorridente e gentile”.
Spostiamo adesso questa situazione a Roma, magari al quartiere Prati.
Traffico interminabile per arrivare e ansia (di ritardare), venti minuti per trovare parcheggio e ansia. Cellulare per avvertire del ritardo e ansia. Dieci minuti per spicciare, fare il ticket e altra ansia. Attesa per liberare il tavolo e ulteriore ansia. Barista scoglionata, sgarbata e triste e ansia finale di non disturbarla troppo o fare richieste inopportune.
Risultato tantissima ansia ed esperienza tragicamente tramontata o comunque danneggiata da troppe fobie.
“Ma in città abbiamo teatri e divertimenti ! Qui non c’è nulla.”
Quindi il suo quesito scontato.
“Da quando non andate a teatro o a divertirvi in qualche locale ?”
In effetti ormai con la vita che ci stanno facendo vivere, Milano o Roma potrebbero benissimo essere Roccacannuccia o Ficulle.
Poi sono passate quattro o cinque ragazzine in bicicletta sulla via principale con le auto dietro, disciplinate e tranquille.
A Roma sulla Via Tuscolana strozzata dalla ciclabile, le avrebbero investite dalle madonne.
Luciano De Crescenzo diceva che non si dovrebbero studiare metodi e farmaci per “allungare” la vita, quanto dare il Nobel per la medicina a chi riuscisse ad “allargare” la nostra esistenza.
Il tempo, di cui parlò anche nel film “32 dicembre“, definendolo bidimensionale, è tale perché lo si può vivere in lunghezza o in larghezza.
Diceva che vivendolo in lunghezza, in modo monotono, l’età anagrafica finisce per corrispondere proprio agli anni trascorsi in vita in una retta dritta e facilmente misurabile.
Mentre vivendolo in larghezza, non come una linea retta, ma come un continuo sali-scendi, una linea spezzata con angoli vivi e con sentimenti, hobby, passioni, vittorie e sconfitte, anche un sessantenne può avere solo 30 anni.
Il problema, spiegava, è che gli uomini anziché studiare come allargare la vita, studiano come allungarla!
Riteneva che il tempo è soltanto una convenzione che “serve solo a sapere che ora è”.
E affermava che quando una persona di una certa età sembra molto più giovane, non è una semplice impressione, è la verità !
Considerato tutto questo, è stato facile rispondere alla domanda iniziale.
Vivere in un piccolo borgo è un metodo straordinario per allargare la propria vita.
E io l’ho capito.
Magari un pò in ritardo … ma l’età è solo un’altra convenzione.

Il sologamo.

Lui è Antoine Cheval, un ingegnere di Marsiglia, “sologamico”, che si è sposato con sé stesso dopo molte relazioni fallite.
Ben 17 “buche” e rifiuti d’amore da parte di partner episodici.
Per il grande passo da solitario, celebrato in chiesa con tanto di messa dedicata, si è inventato un bellissimo abito nuziale, metà bianco da donna con tanto di acconciatura coi boccoli biondi, e metà in smoking nero con capelli rasati e baffetti finti.
In Occidente si racconta che il primo caso sia avvenuto negli Stati Uniti nel 1993, quando una certa Linda Baker per festeggiare il suo quarantesimo compleanno, decise di sposare sé stessa, come atto di amore profondo per la propria persona.
In realtà, la sologamia è una pratica che esiste da decenni in Giappone, ed è fondata su una filosofia intimista volta alla cura del sé e del proprio benessere interiore.
Proprio a Kyoto infatti troviamo un’agenzia che propone pacchetti per matrimoni “self-wedding”.
Questo nuovo concetto è arrivato anche in Italia (e volevo vedere), grazie alla performance digitale, chiamata “Sologamy” (www.sologamy.org), ideata dall’artista vicentina Elena Ketra.
La performance è stata infatti presentata dalla “Fondazione Solares delle Arti”, in collaborazione con la galleria romana “Supermartek” in anteprima internazionale dal 13 al 16 luglio 2023, a Videocittà, il Festival della visione e della cultura digitale, al Gazometro di Roma.
Chi voleva sposarsi con sé stesso, inserendo i propri dati grazie ad uno schermo touchscreen, “in virtù dell’arte e dell’amore”, ha potuto farlo con tanto di certificato che attestava il proprio matrimonio sologamico.
Ormai la fantasia malata di personaggi con gravissimi problemi di identità morale e sessuale, sia uomini e sia donne o mezzi-mezzi, galoppa senza freni.
Uomini-donne, donne-uomini, transizione, metamorfosi, mutazione ed evoluzione, tutti termini attualissimi, incoraggiati dalle élite, che desiderano una specie non omologata ed un crocevia di punti interrogativi, che non hanno radici, tradizioni e identità.
Ed anzi, anzi, che si parla soltanto di Sologamia umana.
Perché si legge di pazzi che si sono sposati con cuscini, bambole gonfiabili, iguane e boa.
Il problema attuale è l’incontro con l’altro ; non ci sono più occasioni per farlo e le relazioni viaggiano sulla falsa pista virtuale.
E allora ecco l’illusione di potersi bastare in un’indipendenza che è assai comoda e funzionale ai consumi.
Perché ai single basta molto meno per campare dignitosamente una vita schifosa!
La morale a questo post demenziale l’ha comunque fornita un commentatore di YouShit : “Io da ragazzo … consumavo spesso da sologamo!!!”.
Chi non l’ha fatto, alzi la mano.



La nonna d’Italia

Vive a Sturno un paesino collinare in provincia di Avellino, la nonna più longeva d’Italia, la signora Laura Lucia Sangenito.
113 anni, traguardo festeggiato oggi pomeriggio alla presenza di tutti i parenti e del Sindaco Vito Di Leo.
In realtà condivide il primato con la romagnola Claudia Beccarini, anch’essa classe 1910, e addirittura più anziana di qualche mese, e con la pesarese Domenica Ercolani, deceduta il 18 novembre scorso.
Ha sempre lavorato nei campi, Nonna Laurina : il segreto della sua longevità, come ha spiegato con poche e semplici parole, sta nel non lamentarsi mai più di tanto, nella fede e nel fare del bene al prossimo.
“Mi sveglio puntualmente alle undici e ho sempre un buon appetito – ha rivelato agli ospiti – Non ho particolari consigli da dare. Per quanto mi riguarda ho imparato che per vivere bene, magari anche a lungo, dobbiamo essere sempre alla ricerca della felicità”.
Nei suoi 113 anni di vita ne ha viste di cose, tra cui una monarchia (quella del Regno d’Italia), due Repubbliche (la prima e la “seconda” Repubblica italiana), dieci Papi e ben tre epidemie (Spagnola 1918-1920, Sars 2004, Covid-19).
È bellissimo festeggiare questi compleanni con tante candeline, tanto che via Operai, la strada dove abita, è stata tappezzata dai concittadini con striscioni e palloncini beneauguranti, tuttavia pensare che i centenari in Italia si stanno moltiplicando sempre più, fa comprendere che andando avanti così, i problemi sanitari, sociali, di assistenza e previdenza, saranno sempre più drammatici, e sommati al contestuale calo demografico per mancanza di nuove nascite.
Io ad esempio non vorrei spegnere tutte quelle candeline, diventare un museo vivente e sopravvivere ai miei contemporanei, passando la parte finale della vita tra tumulazioni, cremazioni e visite a Case di Riposo o Ospedali di parenti, amici e conoscenti o peggio in carrozzella tra letto e televisione.
Quindi da un lato Auguri alle nonne e ai nonni d’Italia, ma nello stesso tempo Auguri sinceri anche a chi dovrà sobbarcarsi di tutti questi vecchietti, bisognosi di affetto e cure, con familiari sempre più anziani.
E Auguri anche a noi che da spettatori/protagonisti, non sappiamo cosa ci aspetta tra qualche anno.

Il chip per i decerebrati

Lo so è un ossimoro, ma migliaia di decerebrati statunitensi si stanno prenotando per il “Chip cerebrale”.
Neuralink, la società con sede a San Francisco, fondata nel 2016 dal transumanista Elon Musk e un gruppo di scienziati e ingegneri, è pronta infatti al primo impianto neurale in un cervello umano (e scusate l’aggettivo umano).
L’ idea fondamentale di Neuralink è quella di creare un’interfaccia altamente avanzata, che possa connettere il cervello di una persona volontaria (per il momento), direttamente a un computer o a un dispositivo esterno, arto artificiale o strumento tecnologico.
I responsabili marketing della società hanno stretto i tempi e vorrebbero “impiantare” subito 11 persone entro il prossimo anno e circa 22.000 entro il 2030.
Scadenza questa del 2030 che interessa molto ai mondialisti.
L’idea di Musk, sarebbe quella di far competere l’uomo (cioè il transumano) con l’intelligenza artificiale.
Cagata colossale, visto che lo scopo vero e ormai neanche più occulto, è quello di fondere la IA con la robotica e la biologia.
Fondere cioè l’uomo alla macchina.
Il chip verrà installato infatti dietro un orecchio, e i 1.024 elettrodi distribuiti su 64 filamenti, saranno installati nel cervello attraverso un’operazione chirurgica di circa due ore, dove verrà rimossa e sostituita una porzione di cranio.
Il chip sarà grande come una moneta e verrà alimentato con una batteria ricaricabile in modalità wireless, che elaborerà i segnali neurali e li trasmetterà a un’applicazione in grado di decodificare il flusso di dati (prototipo di ricetrasmittente umana).
Alla fine, tenendo conto del livello cognitivo medio, per la chiamata all’impianto chirurgico del microprocessore, si sono presentati migliaia di subumani.
Disciplinatamente in fila, pronti ad ogni sacrificio e dolore operatorio e post, pur di poter raccontare di essere i primi al mondo !
Va ricordato tuttavia che in passato alcuni pazienti sono già stati sottoposti a interventi simili e hanno registrato gravissimi problemi di salute.
L’ impianto infatti ha innescato stati dissociativi a livello psicologico, alcuni pazienti hanno sperimentato una paralisi decisionale e c’è stato perfino un caso di tentato suicidio.
Ma ormai entrare nel Great Reset da protagonista, anche a costo di lasciarci la pelle, o comunque rischiare una esistenza da invalido, è un rischio accettabile, perché rientra in quella #nuovanormalità da tutti auspicata.
Avevate dubbi?
Io certamente no !!!
Anzi ben venga.
Perché continua a passo veloce e risoluto quella “speciazione”, che abbiamo denunciato più volte.
Da una parte i “Convergenti’, schiavizzati e resi decerebrati completi, e dall’altra i “Divergenti”, che avranno comunque una vita durissima, vista la proporzione delle forze in campo, ma che potranno foggiarsi negli anni a venire dell’aggettivo di Uomini Liberi.

La fine del pesce spada

Leggendo il blog del sociologo e giornalista Enrico Finzi, alla soglia dei miei 60 anni, ho voluto fare come lui una riflessione abbastanza approfondita sulla morte.
Lui scrive : “Sono, per quel che conta, un ateo convinto e sereno, di stampo illuminista. Nel corso della mia vita e dei miei studi non sono riuscito a trovare alcuna prova dell’esistenza di Dio (che continuo a scrivere con l’iniziale maiuscola per rispetto nei confronti di chi crede). Non solo : ai molti misteri del vivere, ai tanti fenomeni non ancora spiegati, mi pare inutile aggiungere un altro mistero, che non farebbe che allungare il lungo elenco di ciò che non capiamo, non sappiamo, non possiamo conoscere scientificamente. Suppongo, perciò, che la fine della vita comporti la fine dell’attività cerebrale e della coscienza. Così come penso che il corpo cominci a decomporsi, per poi finire in polvere. Eppure … eppure da buon illuminista, razionalista, scientista, non mi sento di poter escludere che dopo il decesso possiamo evolvere in qualcosa di diverso : non posso escluderlo proprio perché – come umani – non abbiamo conoscenza del ‘dopo’. Vado dunque con curiosità verso il mio ‘exit’, che potrebbe aprirmi – come a tutti – un’esperienza inattesa, sorprendente, smentente le mie attuali convinzioni. Il che, esercitando l’arte del dubbio sistematico, non mi consente certezze, come in ogni altro campo. Dirò di più: ho la speranza di venir contraddetto. Anche a me piacerebbe ‘continuare’, magari ritrovare le persone care (e non), vivere (?) in nuove (?) dimensioni, sapere e capire quel che non ho inteso sino alla morte.”
Io invece da cattolico obbligato dalla famiglia ad esserlo, sto arrivando lentamente alla convinzione che “erba, pesce spada e essere umano”, se ne andranno così come sono apparsi su questa Terra.
Niente premi e niente castighi !!!
D’altronde non ho mai visto nessuno tornare indietro ; mai, nemmeno una zanzara, una mosca o una formica, tolte ingiustamente dal mondo, soltanto per il fastidio che arrecano e quindi al limite meritevoli più di noi, di ritorno o resurrezione.
Avevo fatto un patto con mia madre prima che spirasse : “Tornami a dire se la vita continua !”.
Ebbene da quella triste notte del 2014, non ho mai avuto il riscontro a quel macabro impegno.
Il numero sempre maggiore di persone care scomparse – dovuto sicuramente alla mia età che avanza – tranne sporadici sogni e ricordi ad occhi aperti, non ha mai determinato “rivelazioni o apocalissi”.
Il tempo scorre inarrestabile e cancella inesorabilmente ogni esistenza, anche le più illustri, le più amate o quelle viceversa più odiate e cattive.
I “sepolcri” di Foscolo durano fintanto che è materialmente visibile e visitabile il cenotafio, il monumento, le reliquie e i resti materiali del defunto, altrimenti tutto viene cancellato dalla polvere.
E proprio come una bella tartare di pesce spada, finiamo nella pancia di ciò di cui non si sa nulla !!!

Tristezza di fondo.

Sarà il cielo grigio.
Saranno sicuramente gli acciacchi che stanno colpendo tutti.
Sarà l’età avanza e i pensieri che invece restano al palo.
Sarà il borsellino sempre più vuoto, ma indubbiamente c’è una tristezza di fondo che prima non c’era.
Un cuore pesante che per non piangere pensa ad altro.
A correre … per non fermarsi !!!
Leggendo un forum aperto da una ragazza di 24 anni, che su “Mio Dottore.it” affermava : “Mi sento triste e ho un vuoto dentro, non sono soddisfatta della vita che conduco, secondo voi ho bisogno di aiuto ?”, era un susseguirsi di psicologi e psicoterapeuti, che si offrivano a prezzi stracciati, quasi si trattasse di acquistare (o vendere)  pomodori al mercato sotto casa.
“Prenota subito una visita online: Primo colloquio individuale – 50 €”.
La tasca prima dell’amore. Sempre.
Invece di constatare che la tristezza è generale e che è indotta quasi sempre dall’esterno, certi personaggi, cercano di farti subito sentire “diverso” e approfittare della tua debolezza.
Perché le fotografie di oggi, se paragonate o accostate a quelle della nostra infanzia, e parla uno che di primavere ne conta quasi sessanta, sembrano sbiadite, senza colore, anche se realizzate con gigamegapixel e stampate con inchiostri magici.
Quelle belle risate, quelle allegre tavolate, quei tanti parenti e amici in bianco e nero degli anni ’70 e ’80, si trasformano in tristi rappresentazioni del vuoto, della solitudine e della tristezza di oggi, nonostante i mille colori.
Dove per altro si evita pure di stampare, e tutto rimane all’interno di memorie USB che nessuno leggerà mai più.
A quei tempi non c’era bisogno di immortalare cani, gatti e canarini, perché le foto erano piene di gente, che a volte bisognava dividere in due o tre scatti per non dimenticare nessuno.
E viva Dio si rideva !!!
Anche con le bocche sdentate e cariate di quei tempi, quando andare dal dentista era un lusso.
Oggi invece è una fila di podisti con cuffiette che parlano da soli la mattina o la domenica presto, di gente in auto che litiga da sola, di ragazzini chiusi in camera loro che non sanno più nemmeno lanciarsi un pallone.
La mia unica consolazione è pensare che in fondo, anche se non lo vogliamo, tutto è passeggero.
E se è vero che la gioia non dura a lungo, lo stesso può dirsi per la tristezza.
Quindi l’esportazione è sempre la stessa : “Chi si estranea dalla lotta … è un gran fijio de ‘na m………..”.

The fabulous “Five”.

Negli Usa, fino a pochi anni fa, con questa espressione, si ricordavano i principali personaggi Disney, quelli che avevano contribuito a fare di questa casa di fumetti e cartoni animati per i più piccoli, il colosso multimediale di oggi : Topolino, Minnie, Pluto, Pippo e Paperino.
Oggi invece, scrivo per un altro motivo dei “Favolosi Cinque”.
Perché 5 sono gli anni che compie in questa vigilia di Natale, il mio nipotino Lorenzo.
Un compleanno molto importante, perché rappresenta quello che consente il passaggio dal mondo dei bambini a quello degli scolaretti assetati di conoscenze.
Una tappa fondamentale nella crescita e nella personalità di questi ometti e donnine del futuro, in cui non dobbiamo lasciarli a loro stessi, affidandoli a strutture scolastiche sempre più lontane dall’insegnamento con la “I” maiuscola o ad amicizie ondivaghe, prive di valori, di esempio negativo, ma dobbiamo invece illuminarli con luce viva, come le stelle comete che erano le famiglie in gamba di una volta.
Quindi il nostro compito, oltre a sfamarli, pulirli e farli diventare belli e adulti, diventa sempre di più e principale, quello di formarli bene a casa, con grande spirito di GIUDIZIO e soprattutto con desiderio di VERITÀ e LIBERTÀ.
Tre qualità che senza dubbio potranno rimettere sulla via maestra anche questo mondo, che la bussola, purtroppo, l’ha persa da tempo !!!
Buon Compleanno Lory, buona vita piccolo Hulk.

La leggenda delle tre Moire

Nella mitologia greca, le tre donne di origine divina che stabilivano il destino e la fine degli uomini erano le Moire – che successivamente per i Latini assunsero il nome di Parche ; il loro compito era quello di tessere, filare e tagliare il filo della vita degli uomini.
Insieme, forgiavano il destino degli esseri umani che neppure gli dei potevano cambiare, ed anche i loro nomi avevano un significato specifico:
Cloto, la più giovane e associata alla nascita, era colei che appunto filava lo stame della vita.
Lachesi (dal greco “colei che assegna la sorte”), girava il fuso: stabiliva infatti quanto filo spettasse a ogni uomo e decideva le sorti della vita che stava filando, usando lo stame bianco misto ai fili d’oro, per indicare i giorni felici e lo stame nero misto sempre a fili d’oro, per indicare i giorni di sventura.
E infine Atropo (“l’inevitabile”), la più vecchia, che, con lucide cesoie, lo recideva, inesorabile ed inflessibile.
La lunghezza dei loro fili poteva variare, esattamente come quella della vita degli uomini.
A fili cortissimi corrispondeva una vita assai breve, come quella di un neonato, e viceversa per quelli interminabili.
Si ricorda ad esempio che Sofocle, uno dei più longevi autori greci (90 anni), avesse avuto in sorte un filo assai lungo.
Le tre donne erano spesso ritratte dall’aspetto di vecchie, che dimoravano nell’Ade, il regno dei morti.
Il sensibile distacco che si avvertiva da parte di queste figure e la loro totale indifferenza per la vita degli uomini, accentuava e rappresentava perfettamente la mentalità fatalistica degli antichi greci.
Per i quali non c’era risurrezione o ritorno in vita dopo la morte, se non successivamente e nel finire della loro civiltà, quando nel frattempo, erano intervenute contaminazioni religiose straniere.
In questo ultimo periodo della mia esistenza, mi sono chiesto anch’io quanto sarà lungo il mio rocchetto di filo, e quanto si sia divertita Lachesi, a imbastardire tutto col suo filo nero del cazzo, una esistenza che invece Cloto, aveva filato fino ai miei 55 anni, fine e brillante.
Pertanto a questo punto non mi resta che augurarmi che Atropo si svegli il più tardi possibile dal torpore degli anni e che anzi si prenda un bella demenza senile, che le faccia dimenticare pure l’utilizzo delle forbici che ha in mano.
Tutto sta a raccomandarsi al famoso santo napoletano d’adozione, Sant’Antonio abate, quello del porco, con una piccola modifica alla filastrocca che lo riguarda : “con le scarpe ricamate, col vestito di velluto, non le far trovare, quello che ha perduto !”.

La mia vita bucolica.

Dal greco “boukolikos” pastorale, derivato di boukolos “pastore di buoi”, questa parola deriva dall’idealizzazione della vita campestre, fatta di tranquillità e pace, richiamandone le ambientazioni, i toni e le atmosfere.
Il poeta latino Virgilio, che conosceva molto bene gli scritti di Teocrito, nel suo poema scritto intorno al 40 a.C., all’età di circa 30 anni, evidenzió tre categorie e interessi, che possono essere sintetizzati nel paesaggio arcadico, nel rimpianto del “mondo perduto” e nel ritorno alle origini.
Considerato che morì a soli 51 anni per un colpo di sole di ritorno dalla Grecia, possiamo dire che il “vate” ebbe questi rimpianti e questi desideri di ritorno al passato, più o meno alla mia stessa età di oggi.
Evidentemente superata mezza vita, ci si gira indietro inevitabilmente, e non solo, si cerca di variare in ogni modo, tutto quello che si è fatto, per la prima metà della propria esistenza !
Ci si sente pronti per una vita meno comoda, per la vanga e la zappa, per allevare qualche animale da fattoria, per coltivare un fondo e mangiare cibo autoprodotto.
Si riscopre la gioia di accendere il camino, di riparare un tubo che perde, di trovare quell’accidente che ti serviva, negli scatoloni polverosi dell’unico bazar del borgo antico.
Si torna a “Il mondo perduto” di Conan Doyle che oltre ai dinosauri, fece riscoprire all’uomo moderno, la clava, la caverna e il mangiare senza posate.
Io quando sono in montagna riscopro il piacere di dormire profondamente, di camminare, di lavorare e aggiustare casa, di vedere poca o niente TV, di scordarmi il cellulare sul comodino, di parlare con gli altri, di tornare a fidarmi del prossimo e soprattutto di pensare e curare il mio benessere interno.
E credetemi senza alcun rimpianto per le comodità della città o della routine quotidiana.
Inoltre la cosa strana davvero è constatare come sono diverse le persone in questi paesini, rispetto alle megalopoli.
Anche quando sono come noi, dei semplici trapiantati.
Si torna a salutare tutti, pure gli estranei, a vedere donne sull’uscio a parlare tra loro, uomini in piazza o al bar, si scandisce il tempo con un’occhiata fuori dalla finestra e non più dallo swatch di ultima generazione, si riconoscono i profumi del fuoco di legna e di un bel piatto di fettuccine.
Si lascia l’auto ferma, parcheggiata per giorni, sperando che riparta con le gelate notturne.
Non si ha paura neanche dei cani randagi, perché alla fine diventi uno del posto e ti riconoscono dopo appena un pomeriggio.
Indubbiamente la vita bucolica è quella più vicina alla nostra natura, perché siamo in cerca di pace e tranquillità, di toni sommessi o di silenzio, di atmosfere intime e lontane dalle fregnacce che ci propinano come “nuovo che avanza”.