L’effetto collaterale più evidente conseguente al coprifuoco, ai vari lockdown, alle restrizioni domiciliari di questo anno e mezzo, per molti, e anche per coloro che non avevano mai sofferto prima di disturbi psicologici particolari, come il sottoscritto, è stata la cosiddetta “sindrome della capanna” o “patologia del prigioniero”, ossia la paura di uscire e lasciare la propria casa, il luogo che per mesi ci ha fatto sentire al sicuro, al riparo da qualsiasi pericoloso agente esterno.
Per diverse ragioni, ma anche a causa di meccanismi del tutto inconsci, ansia, paura e frustrazione, hanno preso il sopravvento nello stato d’animo di molti di noi.
Danni psicologici (ed anche purtroppo fisici), per certi versi assimilabili a quelli lamentati da chi, è stato costretto ad una lunga degenza ospedaliera o carceraria, o da chi, vivendo in zone del mondo dove il freddo invernale impedisce di uscire, è costretto a restare chiuso in casa per mesi e mesi.
Ieri ne ho avuto la riprova.
Ormai i danni ci sono e sarà difficile se non impossibile, tornare ad uno stato di equilibrio ex ante.
Eravamo infatti a cena per il mio onomastico, con mia moglie, mia figlia, mio genero e il mio nipotino, quando, pur essendo prevista un’ora in più per stare insieme, ossia le 23, ebbene nonostante ciò, alle 21.50 erano già sulla porta di casa, per salutarci e tornare alla loro abitazione. Perché ormai il precedente orario aveva dettato usi e abitudini ed eravamo già tutti mezzi addormentati.
“Casa mia, casa mia …” diceva un vecchio adagio popolare, a significare che a casa propria si sta meglio a prescindere.
Riaffermato e verificato alla grande questo, non vorrei proprio essere nei panni di coloro che prima campavano con la nostra vita frenetica e le tante ore trascorse fuori di casa : bar, ristoranti, hotel, taxi, negozi.
Alle 22 di ieri sera, infatti, ho assistito allo stesso deserto dei mesi addietro.
Mi si obietterà, perché vivo in un paesotto vicinissimo a Roma e non nella grande metropoli, con tante attrazioni e vita notturna.
Ma il coccio ormai mi sembra rotto irrimediabilmente, anche per megalopoli come Londra o New York. Stanno tutti rintanati, tutti stregati davanti al televisore, tutti mezzi addormentati, stremati dal fare poco (o nulla) e tutti ad ordinare le proprie necessità di tutti i giorni, al cellulare, senza neanche verificare la qualità, di quello che ci viene consegnato a domicilio.
Ed è bene non sottostimare la gravità di questa sindrome : più tende a cronicizzarsi, e maggiore è la probabilità che lasci un segno indelebile e per sempre.
Alcuni erroneamente attribuiscono il ritorno alle attività lavorative e non pre-Covid, a qualcosa di simile al ritorno da un periodo di vacanze o di riposo !
Non è assolutamente equiparabile.
Sono due circostanze differenti e credere di superare questo stato psicologico con la facilità di bere un bicchier d’acqua, è dannoso oltre che falso.
Ne sanno qualcosa le migliaia di coppie che in questo periodo hanno rotto i loro legami matrimoniali, visto che in questi mesi di Covid, i divorzi sono aumentati del 60% e le separazioni del 70%.
Oppure l’aumento esponenziale dei livelli di ansia, depressione e i sintomi legati allo stress, soprattutto nei soggetti di sesso femminile, ma anche tra bambini e ragazzi in età scolare.
Con punte percentuali altissime.
Oltre alla sindrome succitata, un’altra situazione di disagio e malessere psicologico, in gergo tecnico, è quella che viene definita di “Languishing”, caratterizzata da una sorta di languire, un osservare la vita dietro un vetro appannato, la
mancanza di voglia di fare cose, una pericolosa assenza di prospettive.
Effetti a cascata e danni ingenti sulle prossime generazioni.
Una responsabilità grande che ricade su ognuno di noi. Senza scaricabile.